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Recensione: Interview

Interview, remake del film di Theo Van Gogh (a cui è pure dedicato), diretto e interpretato da Steve Buscemi è un inno alla menzogna, una partita a scacchi fra due manipolatori della realtà, il giornalista Pierre Peders e la famosissima attrice di soap opera Katya.
Pierre Peders (Steve Buscemi) è un giornalista di guerra, supponente e dal fine ragionamento declassato ad intervistare una giovane star, Katya (Sienna Miller). Al primo appuntamento, l’attrice raggiunge il luogo dell’appuntamento in ritardo di un’ora. La conoscenza non è delle migliori: lei pensa di lui che sia un arrogante dalla risposta pronta, lui di lei , che sia la classica ragazzetta frivola, priva di idee e personalità.
Il rapporto, che non si riesce ad instaurare al ristorante, si crea, di contro, nel loft di Katya, luogo in cui viene trasportato il reporter, dopo essere stato coinvolto in un incidente in taxi. Nella casa di lei, i due protagonisti cominceranno a raccontarsi i loro segreti, veri o supposti, ad utilizzare seduzione o comprensione, toni pacati e accesi, per riuscire a vincere l’avversario nella battaglia intellettuale, che si è creata tra loro.


Interview è un film a livello d’azione pari a zero, ma dal grande valore riflessivo: oltre a mostrare un evidente voyerismo dei protagonisti (rappresentato dalla videocamera che registra i loro dialoghi, dalle occhiate che si lanciano i due quando si trovano distanti, dal curiosare del giornalista tra computer e fotografie), la pellicola descrive alla perfezione il potere della parola, la grande capacità di manipolazione che hanno sia gli attori, che i giornalisti di fronte alla realtà e l’importanza di conoscere tutti i particolari per poter dare un’opinione corretta.
Grandissima prova di Steve Buscemi e Sienna Miller che, praticamente da soli, reggono l’intero film come se fossero sul palcoscenico di un teatro, solo con la loro presenza e la loro recitazione. A tratti metacinematografico o, più che altro metateatrale (quando Katya spiega le tipologie del pianto o descrive le tecniche di recitazione), a tratti una seduta dallo psicologo (i due personaggi si sdraiano alternativamente sul divano, si scambiano il ruolo di intervistatore e intervista), il film, che dura un’ottantina di minuti, ci accompagna con queste modalità ad un finale che è il logico, ma non prevedibile, epilogo della storia.
Il film è perfetto per quello che è: meticoloso nella ricerca del dettaglio e nei continui primi piani; ricco di cambi di ritmo e umori; un fiume di parole per sfinire l’altro e ottenere la verità.
Tutto ciò, però, potrebbe non piacere a chiunque: sconsigliato a tutti coloro che ricercano tanta azione, espliciti colpi di scena, ritmo sostenuto e riflessioni palesate. Il film è profondo e ben fatto, ma se affrontato con leggerezza, può diventare un macigno difficile da sopportare.

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