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Recensione: L’incredibile Hulk

Il fisico nucleare Bruce Banner (Edward Norton) si nasconde in Brasile, lavorando in una fabbrica che produce bevande al guaranà, per riuscire a trovare, in continuo collegamento con Mr. Blue, il dottor Samson (Ty Burrell), una cura all’esposizione dei raggi gamma che lo trasformano in Hulk e che l’hanno costretto a fuggire dall’America perché braccato dall’esercito.
Una goccia di sangue, persa in uno stupido incidente in fabbrica, dà la possibilità al terribile Generale Thaddeus Thuderbolt Ross (William Hurt), di riuscire a rintracciare l’uomo: il suo scopo è quello di catturarlo, per poterlo studiare e creare un esercito di supersoldati modificati geneticamente.
Con l’aiuto dell’amata Betty (Liv Tayler), la figlia del generale, Bruce fuggirà da loro sempre più certo di voler cancellare dalla sua vita la personalità furiosa di Hulk. Di fronte all’Abominio, la prima prova di supersoldato rappresentato da Emil Blonsky (Tim Roth), dovrà prendere una decisione importante: fuggire e curarsi o imparare a convivere con la propria diversità per difendere la nazione?


Il regista Louis Leterrier e lo sceneggiatore Edward Norton, personalità differenti del panorama cinematografico, il primo quasi totalmente dedicato all’azione (Transporter Extreme), l’altro più riflessivo, danno vita ad un film ibrido, L’incredibile Hulk, apprezzabile solo a tratti, che risente della doppia anima quasi come l’antieroe (divenuto eroe) Bruce Banner: è troppo netto lo stacco tra la prima mezz’ora di film, una profonda introspezione del protagonista, alla ricerca di qualcosa che elimini definitivamente il male che c’è in lui, con il resto del film, una continua serie di fughe e combattimenti, che escluso quello iniziale e quello finale, rischiano di annoiare.
Se nel film di Ang Lee, di cinque anni fa, si racconta la trasformazione di Bruce nel mostro verde e l’incapacità del protagonista di convivere con la bestia che c’è in lui, in quello di Leterrier, si descrive la fase successiva, ovvero l’accettazione del problema: il male non è la gigantesca mole dell’essere verde, ma quello che Hulk rappresenta, cioè un’esplosione di rabbia incontrollabile. Per questo motivo la soluzione è data dal controllo del pensiero (tecniche di rilassamento, meditazione) e non da quello del corpo: dove non può arrivare la scienza può arrivare la fede.
Concludendo: quello che non funziona nel film è la ripetitività dell’azione stessa, spettacolare si, ma sempre uguale. Il tema della doppio, centrale nel film (La doppia personalità di Bruce/Hulk o la figura dell’abominio, che non è altro che Hulk elevato all’ennesima potenza), insieme a quello della ricerca della propria personalità, vengono introdotti benissimo per poi essere lasciati andare a favore di sequenze adrenaliniche, da comune blockbuster.
Presenti nel finale due attori d’eccezione, Lou Ferrigno e Robert Downey Jr., per due motivi differenti: il primo è un omaggio alla serie televisiva di fine anni settanta, il secondo interpreta la parte, in cui l’abbiamo visto di recente, del signor Stark – Iron Man, che comunica al generale Ross, la volontà di reclutare Hulk e al pubblico, l’uscita in futuro del film sui Vendicatori.

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